RITUALE DELL’UOMO CERVO
Carnevale di Castelnuovo al Volturno: alla scoperta del rituale dell’uomo cervo
Semel in anno licet insanire: una volta all’anno è lecito fare pazzie. È così che recita una nota sentenza, attribuita a Seneca. E quando, se non a Carnevale, è permesso tirar fuori quella radice ancestrale e tracotante dell’essere umano, quel puro istinto che appartiene alla profonda natura animalesca dell’uomo? Quella che rappresenta, in fondo, la conditio sine qua non della rinascita, del trionfo dell’ordine sul caos. D’altronde, è questa la vera essenza del Carnevale: attraversare la perdizione, per poi risorgere. La natura ha bisogno di morire, per rinascere, poi, a primavera. Ed è così che, dai tempi in cui mito, leggenda e realtà si confondono, il passaggio da una stagione all’altra viene sancito con un rituale apotropaico.
Immaginiamo, ora, di essere a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta a Volturno, incantevole zona della provincia di Isernia. È l’ultima domenica di Carnevale e, la cornice crepuscolare del tramonto che avvolge l’unica piazza presente, le case e i monti delle Mainarde in un unico e suggestivo dipinto, offre lo scenario per un rituale carnevalesco tutto molisano: il rito dell’Uomo Cervo, “Gl’ Cierv” per la precisione. Il tintinnio ridondante dei campanacci, suonati dalle Janare in arrivo, lascia presagire a centinaia di spettatori trepidanti di attesa che qualcosa di magico si sta per compiere. E, poi, ecco gli Zampognari. Trambusto, grida ossesse e bramiti annunciano l’arrivo impetuoso dell’Uomo Cervo, la bestia, “Gl’ Cierv”; i suoi attributi sono quelli tipici dell’universo ferino, nella sua dimensione tutta pre-umana (e pre-umanizzata): vestito di pelli e sulla testa grandi corna ramificate. Inchiostro nero sul volto e campanacci sul petto, esso è il simbolo dell’inverno, della fame, del freddo, della mendicanza, la figurazione della parte più buia dell’animo umano, dell’irragionevole, della travolgente tendenza autodistruttrice. In preda ad una furia indomabile, crea scompiglio nella piazza, urlando e dimenandosi con violenza selvaggia. Nemmeno le movenze più aggraziate della bianca Cerva, la sua compagna, riescono a placarlo.
Come ogni mito comanda, è necessario un eroe civilizzatore: ed ecco Mago Martino, misterioso personaggio venuto dalla montagna, l’incarnazione del Bene chiamato a domare il Male: le bestie, adesso, sono state soggiogate. Ma non è sufficiente: il Male torna a vincere, perché i cervi riescono a divincolarsi e a seminare panico ancora una volta. Soltanto il definitivo intervento del Cacciatore, colui che incarna il trionfo della giustizia sulla tracotanza, riesce a frenare le forze disgregatrici: le bestie sono a terra, ferite dal colpo esiziale dell’arma da fuoco. Tuttavia, se è vero che la vita offre sempre una seconda possibilità, vien da sé che non tutto è stato ancora compiuto: il Cacciatore soffia “un alito di vita” nelle orecchie dei due animali ed essi si rianimano. Una possibilità di redenzione, una nuova vita lontana dalle asprezze degli istinti, dalla contaminazione. Gli animali, ora, sono liberi di correre verso le montagne, verso la natura incontaminata e rigenerati da un afflato di umanità. L’inverno è giunto al termine, torna la Primavera e, con essa, il rigoglio della Vita.